Infortunio sul lavoro: l’avallo di una consolidata prassi pericolosa comporta la responsabilità del datore di lavoro (in carica e cessato) e della società ex D.lgs. 231/2001

La recente sentenza della Cassazione (Cass. pen. 48779/2019 ) afferma la responsabilità dell’amministratore delegato in carica, dell’amministratore delegato cessato e della società per un infortunio occorso a causa di un’invalsa prassi pericolosa avallata dai vertici societari.

Nel dettaglio, dopo una lunga disamina delle accertate carenze in ordine a valutazione del rischio (nel DVR), informazione e formazione del personale sulla procedura corretta da adottare, la Corte evidenzia come nel caso concreto “spic[chi] la violazione dell’obbligo di elaborare in maniera adeguata” il DVR e sottolinea come l’evento dannoso verificatosi risulti essere “la concretizzazione proprio del rischio che un’adeguata informazione e formazione del lavoratore, in uno con la previsione nel [DVR], avrebbe potuto evitare”.

Per queste ragioni, la Corte concorda con la sentenza impugnata, in cui si afferma che la “negligenza degli imputati va ravvisata non nell’inadempimento all’obbligo di vigilanza e sorveglianza costante sulle lavorazioni in relazione ad istruzioni già precedentemente impartite ma nelle carenze di ordine organizzativo generale” rispetto alle quali non sono state tempestivamente adottate misure volte a prevenire i rischi e che “avrebbero presumibilmente evitato il verificarsi dell’infortunio”.

Sulla base di ciò, la Corte ha ritenuto responsabile:

  • sia, l’amministratore delegato in carica (rectius datore di lavoro) a cui era noto che nel reparto interessato dall’infortunio vi fossero irregolarità tali da necessitare “attenzione immediata e un intervento specifico”, assenti invece nel caso concreto;
  • sia, l’amministratore delegato cessato, poiché egli non ha adempiuto (come acclarato dalla “lunga durata della prassi pericolosa”) agli obblighi prevenzionistici, nel momento in cui egli era titolare della posizione di garanzia;

E ciò poiché è ben possibile che siano chiamati a rispondere della violazione più soggetti “contitolari di posizioni di garanzia concorrenti e convergenti rispetto alla medesima finalità prevenzionale”.

La Corte appura, inoltre, la responsabilità amministrativa della società (ex art. 25-septies, D.lgs. 231/2001), vista la comprovata carenza di un modello di organizzazione e gestione idoneo a prevenire la commissione di reati della specie di quello verificatosi e “la protratta sistematica violazione della normativa prevenzionistica a vantaggio dell’ente”.

La Corte ricorda, infatti, che il requisito del vantaggio (di per sé capace di fondare la responsabilità ex D.lgs. 231/2001) ricorre ove la persona fisica “pur non volendo il verificarsi dell’evento morte o lesioni del lavoratore, [abbia] violato sistematicamente le norme prevenzionistiche” realizzando “una politica d’impresa disattenta alla materia della sicurezza del lavoro” e così “consentendo una riduzione dei costi ed un contenimento della spesa con conseguente massimizzazione del profitto”. Come per l’appunto avvenuto nel caso di specie, in cui la società, avallando la prassi pericolosa, aveva conseguito un “risparmio di spesa” e “minor dispendio dei tempi di esecuzione oltre che dei materiali rispetto alla procedura corretta” oltre al risparmio dei costi “connessi ad un’adeguata attività di formazione ed informazione dei lavoratori” (cfr. in tema Cass. pen. 3731/2020).

Alla luce di quanto stabilito dalla Cassazione, appare centrale per enti e imprese il possesso di un’adeguata organizzazione (conforme agli obblighi prevenzionistici previsti ex lege) e l’adozione e l’efficace attuazione di un modello di organizzazione e gestione idoneo a mitigare il rischio di commissione dei reati ed eventualmente escludere o ridurre il rischio sanzionatorio per l’ente.

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