L’evenienza di un residuo valore commerciale del bene non esclude la qualifica di rifiuto

Il caso che interessa la pronuncia in parola (Cass. pen. 7589/2020) riguarda l’impugnazione della sentenza d’appello con la quale i Giudici di merito avevano confermato la condanna dei due imputati per gestione illecita di rifiuti (già art. 260, D.lgs. 152/2006, ora art. 453 quaterdecies c.p.): i due soggetti dopo lo stoccaggio generico, in un’area da loro gestita, avevano inviato in plurimi Stati africani diversi rifiuti (RAEE, pneumatici fuori uso, batterie fuori uso e materiali ferrosi in genere) mediante il carico su container; il tutto senza che fosse eseguita alcuna preventiva operazione di recupero e in carenza di qualsivoglia autorizzazione.

Secondo la tesi difensiva i ricorrenti non hanno operato una gestione illecita di rifiuti in considerazione del fatto che i beni spediti in Africa non potevano essere considerati rifiuti, visto che tra l’altro, gli stessi avevano valore commerciale nei Paesi di destinazione.

Il Supremo consesso, nel confutare l’argomentazione difensiva, rammenta che la definizione di rifiuto ha carattere normativo ed è direttamente ricavabile dall’art. 183, comma 1, lett. a), D.lgs. 152/2006 (secondo cui, costituisce rifiuto “qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o abbia l’obbligo di disfarsi”). Sicché i beni nella disponibilità degli imputati non potevano essere qualificati altrimenti (si trattava di “materiali in disuso o deteriorati o, persino, non più oggetto di possibile commercializzazione ed utilizzazione nel territorio nazionale”).

In merito la Corte evidenzia che è irrilevante “la circostanza che i beni in questione potessero avere tuttora un qualche valore commerciale ovvero fossero suscettibili di essere riparati e riutilizzati al di fuori dell’Italia” poiché il valore commerciale del bene non si pone in contraddizione con la qualifica di rifiuto. Infatti è indubbio che i rifiuti siano merce e come tale possano essere oggetto di transazioni commerciali; è altrettanto indubbio, però, che il soggetto che compie dette transazioni debba essere in possesso delle prescritte autorizzazioni per la gestione rifiuti.

Il Collegio conclude sottolineando che al caso di specie non possa trovare applicazione neppure l’art. 184-ter D.lgs. 152/2006, recante la disciplina della cessazione di qualifica di rifiuto (c.d. end of waste). Difatti secondo la disposizione in parola affinché il bene possa essere considerato end of waste è necessario che lo stesso sia preventivamente stato oggetto di un’operazione di recupero, il che può consistere anche nelle operazioni di cernita e selezione dei beni. Ove dette operazioni non siano esaurite la qualifica di rifiuto non può cessare e il bene rimane sottoposto alla disciplina in materia di rifiuti.